Editoriali

La lettura della malattia dal di dentro. Quando da medico si diventa paziente

Molti di coloro che hanno subito un problema di salute spesso vogliono lasciare alle parole scritte le loro impressioni, a maggior ragione se il paziente è un medico: descrivendo come ci si senta e quali siano i sentimenti o le ansie come ammalati di fronte all’incertezza dell’esito della malattia e, a seconda della gravità, alle possibili ripercussioni sulla vita.

Non scrivono solo i medici, che spesso testimoniano un cammino, una ridda si sentimenti contrastanti, una speranza che non muore. Ma altre volte si riportano esempi di grandi come di piccoli pazienti, che hanno descritto con occhio particolare i momenti, le ansie e le vive preoccupazioni sul proprio futuro e sugli esiti sperati e talvolta ineludibili e inclementi, a seconda, come diceva il poeta, del persistere del morbo o dalla sua sconfitta.

Ma un aspetto non va sottaciuto ed è quello umano e di umana comprensione. Il passaggio è ascrivibile a quella preghiera di Sir Hutchinson degli inizi del secolo scorso che ammonisce da quel curare il malato come fosse malattia cosicché la cura sia peggiore del persistere del morbo.

Un assioma che porta a considerare un ulteriore aspetto che è differente dalla capacità della cura e che riporta al valore dell’univocità dell’ammalato: ammalato e non persona assistita o persona o semplice paziente, che sono termini che suonano piuttosto retorici se non proprio ideologici, contrapposti al concetto di colui o colei che soffrono e che hanno in sé un valore ontologico che supera qualsiasi definizione semantica.

Su questo si è a lungo dissertato con ferme contrapposizioni durante il percorso di elaborazione del Codice deontologico medico del 2014, fermandosi sul principio che paziente, identificando un soggetto universalmente riconosciuto nel suo essere, assommasse su di sé tutti i concetti che oggi richiamano al rispetto dell’essere umano in quanto persona, al punto da considerare inutile ogni ulteriore definizione.

Paziente che, visto dall’interno, impersona il sentire di chi dipenda da altri e ad altri affidi il bene più prezioso che possieda, la sua salute.

E qui entra in gioco la posizione del paziente che diventa l’apice del triangolo di cura in cui in una visione tridimensionale partecipano le varie figure addette per l’appunto alla cura e all’assistenza, nelle loro forme variegate.

A Rimini, in occasione degli stati generali del medico nel maggio scorso, si parlava di quale medico e di quale paziente oggi si intenda nell’evoluzione della modernità e nella sostenibilità del sistema della salute, io ritengo che non cambi il significato antico fra medico e paziente. Infatti quantunque possa essere diversamente definito il rapporto di cura tra medico e paziente questo è sempre alla base della gestione univoca e esclusiva della salute, e, chi guarda dal basso verso l’alto, dalla sua posizione allettata, non solo lo percepisce ma lo desidera anche se, per certo verso, talvolta lo subisce.

E lo subisce perché spogliato del suo essere, del suo valore sociale, della sua posizione, della sua cultura, della sua considerazione sociale: il paziente è indebolito, e per quanto non lo voglia, si sente spogliato, metaforicamente, del suo esistere e diventa automaticamente debole e impotente, una figura che deve dipendere da altri e che si deve affidare ad altrui competenze e giudizi. Tutte cose che, di fronte alla salute, valgono poco. Molto poco.

E diventa paziente di nome e di fatto, aspettando i risultati e le decisioni che, per quanto condivise, sono e devon’essere fra impari e non certo fra pari. Infatti c’è una sostanziale differenza fra chi sa e chi sa meno o non sa: il sapere che la conoscenza esprime in modo reale è fondante ma si annulla laddove si dipenda da altri… così come in ambito assistenziale è naturale e necessaria una diversificazione dei ruoli che è ancor più evidente per chi è allettato e dipende dagli altri.

Il sistema così com’è strutturato oggi funziona. Funziona solo se ci sono sinergie e compiti definiti, se ognuno esprima la sua arte e faccia la sua parte. Così si va a contraddire quanto da parti avanzate delle professioni sanitarie si va sostenendo dovendo scomodare – e la storia è sempre maestra – l’apologo di Menenio Agrippa, secondo cui l’agire in sinergia con ruoli e funzioni definiti offre il maggior risultato, secondo parametri di comportamento, altrimenti detti, ruoli e funzioni complementari, che si assommano in un “unicum” assistenziale. Nel rispetto – e non stona – di responsabilità adeguate.

Le testimonianze dal di dentro, da allettato, non fanno trascurare altri aspetti di non minor conto: i turni di lavoro particolarmente intensi e stancanti, le carenze di strumenti e personale, in un sistema rodato di collaborazione e di mutuo soccorso che poco ha a che vedere con certe velleità di mansioni superiori.

Il sistema è oliato per avere, questo sì, diverso riconoscimento e considerazione da parte della società e del mondo politico, visto che ancor oggi il lavoro fatto per salvare vite umane, o portare sollievo a chi soffra negli ospedali non è una cosa da poco o di poco conto. Per cui è doveroso il riconoscimento per medici e infermieri non di un lavoro non qualunquebensì di un lavoro alto e, come tale, considerato e potenziato e dunque valorizzato.

Ma suonano sciocche talune prese di posizione che vogliono limitare certe prerogative e costruire ulteriori figure professionali che sono a metà tra il medico e l’infermiere o di altra professione sanitaria: la politica seguita finora è stata prodiga di conflittualità e urge una vera riforma della formazione ma non certo del depotenziamento del medico. Oltreché sciocchezza è grave responsabilità.

In molti giudizi, come detto prima, la storia ci è di conforto. Agli stati generali della professione medica, nella sessione relativa all’organizzazione sanitaria conclusi la mia relazione sui rapporti fra medici e professioni sanitari ricordando che certe fughe in avanti sono state fatte in passato e i cui esiti non sono stati sempre così positivi.

A Rimini tralasciai di proiettare una diapositiva relativa a esperienze passate, diremmo quasi alto medioevali, anche se considerata di grandissima attualità.

Al tempo della Serenissima, si era nell’anno 1258, era vigente a Venezia lo statuto dell’arte dei Medici e degli Speziali e, circa dodici anni dopo, nel 1270, ne fu stabilito un secondo, mossi dalla necessità di garantire assistenza, minore, durante gli episodi bellici, a causa della carenza di medici: fu stabilito in ambito medico lo Statuto dei medici minori, o meglio dei Barbieri o Cerusici barbieri o Ceroici.

Costoro che dell’arte del rasoio erano maestri, oltre alla rasatura della barba venivano investiti dei compiti di cura della cavatura dei denti e del salasso (extraendo et aptando dentes et sanguinare minuendo).

Due furono dunque le corporazioni: de’ Medici Chirurghi e dei Barbieri ceroici. I primi, col privilegio di creare maestri nelle loro arti e di concedere licenze di chirurgia minore ai barbieri o ceroici: questi sostenevano un esame per dimostrare di conoscere la composizione di alcuni medicinali, di saper medicar bruschi, sgrafiature, machadure, ferite et casi lezieri et non in pericolo di morte.

Una esperienza di antico See and Treat o Perimed, diremmo col verbo regionale tosco- romagnolo, ma che non ebbe grande sviluppo, per non dire che ebbe un vero e proprio decadimento.

E’ forse la modernità vedere, dopo ben oltre ottocento anni, che si è arrivati ad avere sanitari che sanno fare bene l’assistenza e che, forse, mancano di un supporto, economico e umano per lo meno in risorse, per garantire un servizio che sia efficiente e allo stesso tempo riconosca i sacrifici di chi lavori, senza fare voli pindarici, per il bene di quel paziente, ammalato, che proprio anche da loro e non solo da loro dipende.

Così visto dall’interno da chi, medico, si è spogliato del suo sapere e affidato ai colleghi e al personale che gli è stato vicino, anche con qualche battuta e sorriso che non manca mai in queste situazioni di difficoltà oggettiva. E a chi lavora senza fronzoli e supponenza non può che andare un grazie sincero.

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