Partendo dalla storia della professione moderna, viene superata la visione autocratica della medicina basata sul medico esperienziale e tradizionale, frutto della evoluzione della storia della medicina, considerata sociologicamente come storia delle visioni autarchiche, in una koiné[1] previdente di unità funzionale di pensiero al di fuori di differenze culturali, che nulla incidono sul principio universale della beneficialità degli atti della e sulla persona.
Tre recenti pronunciamenti riguardanti la professione medica richiamano per certo verso questa visione che, in ambito legislativo e costituzionale, allontanano e, al contempo, avvicinano, con diverse conseguenze sul piano delle risultanze. Con reazioni che vanno dalla divisività alla soddisfazione.
Sono tre gli elementi del ragionamento: due più divisivi, i Decreti “antiviolenza” e “flussi” per gli effetti che ne conseguono e un terzo, la sentenza 195/24 della Corte costituzionale, che induce ad un certo non velato ottimismo.
Diversi ma accomunati nel significato di portare a norma situazioni difficili e deprecabili o provvisorie; oppure, per così dire, in controtendenza, si oppongono alla consolidata politica dei tagli e delle risorse invariate in sanità. Col richiamare, nel bene e nel male, alle necessarie risorse atte ad assicurare la tutela del diritto primario della salute collettiva e con la non certo velata speranza che le ubbie e la mutevolezza di quella politica d’opportunità, non riportino al “grigio” il cielo del futuro della professione attraverso escamotage di giornata o numeri da prestidigitatori di borgata.
Purtroppo, ciò che accade è direttamente correlato al peso assegnato al medico e alle manovre esistenti all’interno del nostro mondo medico, ordinistico, sindacale, societario scientifico che hanno una parolina come denominatore comune, nel cui nome si articolano le scelte.
Una parola abbastanza “parca di sillabe”, dunque breve” ma pregna di significati. Politica, evocata e equivocata, nobilitata o denigrata, svolta e interpretata da cultori D.O.C o d’annata. Nel bene come nel male. Nel suo nome, ma con differente giudizio esterno, si sono pronunciati i nostri parlamentari nel votare i provvedimenti in cui ha fatto specie l’astensione per lo meno del primo, con riferimento a quello sulla condanna e prevenzione della violenza. Dimostrando come non votare, astenendosi, ciò abbia significato opposizione netta a un valore che dovrebbe, invece ad unificare nella condanna e contrapposizione.
Ciò, a prescindere. Ma che, la politica, divide e distingue. Facendoci vergognare per questo atto, giustificato dai soliti praticanti di Montecitorio, adusi piuttosto al gioco della politica della contrapposizione e non alla sintesi etica nel bene collettivo o verso parti fondanti della società civile. Coi soliti perbenisti dell’utilitarismo di facciata de “l’importante è che la legge è passata”. Con questo banalizzando il vero significato, o la pochezza, del non pronunciamento su un atto, quello del contrasto alla violenza, che rappresenta un valore assoluto privo di colore partitico ma dal grande valore politico “vero” e morale su cui trovare sintesi. Sempre a prescindere. Perché segno almeno di civiltà richiesta ai rappresentanti del popolo.
Un atteggiamento sconcertante che è in linea con la “liquidità” del pensiero di coloro che sono chiamati a tutelare con le leggi la vita dei cittadini. Quei cittadini che li hanno legittimati eleggendo componenti rappresentativi al Parlamento.
Ma non sempre le leggi sono state e sono segno di terzietà e tutela collettiva rispondendo alla Costituzione, risultando, piuttosto, foriere di un’ideologizzazione di principi e di valori di parte. Basti pensare a quanto sia risultata divisiva la Legge Gelli Bianco (prima della sua approvazione definitiva, con ampio dibattito su QS, pasticciata e da riscrivere). I suoi sponsor ed estensori essendo prioritariamente medici, rispondenti anche fuori della professione al Giuramento d’Ippocrate, oggi modernizzato in professionale. Ovvero, medici fra i medici, soprattutto, politici fra i politici: quei Gelli e Bianco che hanno ricevuto plauso e anche la critica della professione medica, esposta sempre agli strali assicurativi e con solo un pannicello caldo sulla colpa professionale, confondendo in quasi tutti i suoi passaggi il ruolo e le funzioni del medico uniformato ad esercente, pur delle professioni sanitarie.
Equivocando, in primis, sugli attori e sugli effetti per i destinatari, sugli atti medici non più medici, divenuti e amalgamati negli esercenti le professioni sanitarie, definizione a cui si è giunti dopo l’ottenuto ritiro dell’atto sanitario, declinato in origine nell’incipit della Legge, quale esagerata esenzione del mai citato atto medico, proprio da quella politica che lo ha ritenuto divisivo e che ha, per questo, avuto sponda anche federativa fin da allora, ma con forte pur altalenante dissenso al suo interno.
Dopo l’analisi in premessa dei due decreti è naturale chiedersi a chi, alla fine dell’opera, abbia giovato e giovi tutto ciò. Per di più, trovandosi di fronte ai decreti antiviolenza medico-sanitaria e flussi, due fenomeni solo in apparenza slegati, è necessaria un’articolata analisi sui contraccolpi lavorativi in ambito sanitario estendendola ad altri aspetti, quali l’accoglienza o la sicurezza dei sanitari o la garanzia della salute coi loro riverberi sociali.
Ancor più su quanto, e su come, incidano le scelte della politica in ambito dei fondamentali diritti della persona e della collettività, costituzionalmente garantiti, come lo sono, garantiti, quelli dei servitori dello Stato cui appartengono i politici per mandato e professione.
Col considerare come ogni scelta in tale ambito sia orientata – o debba esserlo – al bene comune con finalità etica e sociale coincidenti, pur partendo nella dialettica democratica da contrapposte posizioni ideologiche, che trovano sintesi nella prassi dei principi condivisi di civiltà vissuta e praticata. Principi avvalorati dalla coscienza del servizio, sulla cui difformità vi è molto da fare per fugare aspetti meno nobili di un utilitarismo di parte e non solo di facciata.
Con ciò – nella tradizione italica per dirlo come il poeta rivolgendosi al Canova – v’è “sdegno (per) il verso che suona e che non crea”. Che identifica nel significato quanto prodotto a giustificazione di provvedimenti di parte invece che ispirati al bene collettivo.
Le forti perplessità non sono certo fugate neanche dai giustificativi, ritenuti inadeguati e superficiali, di una immotivata proroga dell’emergenza medica fino al 2027, per consentire la pratica professionale a medici non comunitari “non controllati” nel SSN, ponendola come immediato rimedio, a dire parlamentare, all’annoso problema dei medici italiani posti di fronte all’imbuto professionale per le nuove generazioni.
Una vexata questio su cui ci si è espressi in vari ambiti locali e nazionali con ipotesi risolutive inviate anche a ministri di un non lontano passato che hanno accettato solo parzialmente certe soluzioni proposte, rese inorganiche nel sistema proprio perché parcellizzate.
[1] Rif. Koinè (Treccani, κοινὴ) Lingua comune, come uso linguistico accettato e seguito da tutta una comunità nazionale e su un territorio piuttosto esteso, con caratteri uniformi (in contrapposizione ai dialetti locali e alle parlate regionali, territorialmente limitati e disformi). (…) 2. fig. Affinità, unità, convergenza di situazioni storico-culturali in una determinata area o comunità, differenziata invece sotto altri aspetti (sociali, politici, ecc.); in partic., k. culturale, religiosa, l’unione di più popoli in una comune cultura o religione (…)
Pierantonio Muzzetto
*Presidente Omceo di Parma, Presidente Coordinatore e della Consulta Nazionale Deontologica della FnomceO